“C’è chi crede e chi non crede” (Parte III)


Nelle due riflessioni precedenti (“C’è chi crede e chi non crede” Parte I e Parte II) ho cercato di mostrare alcune ragioni a sostegno delle seguenti tesi:

1) la contrapposizione tra fede e ragione scientifica è del tutto strumentale e funzionale al fondamento del Relativismo.

2) la contrapposizione tra dimensione “metafisica” (o spirituale) e dimensione “materiale” non si fonda su solidi argomenti ma tutt'al più su un "punto di vista" accettato a priori e senza alcuna dimostrazione, anch'esso funzionale al fondamento del Relativismo.

3) il materialismo - ogni forma di materialismo, compreso quello che si pretenderebbe "scientifico" - si basa su una fede e non può porsi come verità incontrovertibile e dimostrata. Che esista la materia è tutto sommato una credenza diffusa e condivisa, ma non per questo dimostrata. 

4) la realtà della dimensione metafisica o spirituale è certa ed è (basti Platone o Cartesio per tutti: cogito ergo sum) pienamente incontrovertibile (mentre al contrario, come si è visto, l'esistenza di un mondo materiale è una mera supposizione).

In questo modo gran parte della comune concezione materialista risulta piuttosto difficile da sostenere.Certezze e dubbi si sono così capovolti. Lo spirito è certo, la dimensione sopra fisica lo è, mentre l'esistenza della materia no.

A questo punto viene il colpo duro, ma anche il più difficile. Non so se sia decisivo, molto dipende dalla capacità di incassare del nostro avversario.

Come tutti ricordano nella storia della filosofia un numeropiuttosto ampio di filosofi sostiene, a titolo diverso e con molteplici argomenti,l'esistenza di Dio.

Tra le diverse prove quella più originale (e a mio giudiziodefinitiva) è stata esibita dal monaco Anselmo d'Aosta.

Anselmo presentò la prova logica dell'esistenza di Dio nel libro intitolato Proslogion ai capitoli 2-4. Siamo nel 1077 circa. Una chicca.

Con le parole di Anselmo:

"Dunque,o Signore, tu che dai l'intelletto della fede, concedimi di intendere, per quanto tu sai es­sere utile, che tu esisti come crediamo, che tu sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. 2. O forse non esiste qualche natura siffatta, poiché l'insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste (Sal 14, 1 e 53, 1)?Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ode ciò che io dico, cioè qualcosa di cui non può pensarsi nes­suna cosa maggiore, intende ciò che sente dire; e ciò che intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. 3. Altro infatti è che una cosa esista nell'intelletto e altro intendere che una cosa esista. Infatti quando il pittore premedita ciò che sta per fare, egli lo ha nell'intellet­to, ma non intende ancora che esiste ciò che non ha ancora fatto. Quando poi lo ha dipinto, egli non solo lo ha nell'intelletto, ma intende anche che esiste ciò che ha già fatto. 4. Dunque anche l'insipiente deve convincersi che almeno nell'intelletto esiste qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende, quandolo sente dire, e tutto ciò che intende esiste nell'intelletto. Ma certamente ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto. Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensarlo esistente anche nella realtà e questa allora sarebbe maggiore. 5. Di conseguenza se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciòdi cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo evidentemente non può essere. Dunque, senza dubbio,qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell'intelletto sia nella realtà. Capitolo 3. 1. Questa cosa dunque esiste in modo così vero che non si può pensare che non esiste. Infatti si può pensare che esista qualcosa che non si può pensare non esistente; ma questo è mag­giore di ciò che si può pensare non esistente. Dunque, se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore può essere pensato come non esistente, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa mag­giore non è ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. E ciò è contraddittorio. Dunque qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste in modo così vero che non si può pensare non esistente. 2. E questo sei tu, o Signore Dio nostro (...)." (Anselmo d 'Aosta,Proslogion, capp. II-III).

È forse una delle prove più impressionanti, anche dal punto di vista stilistico, oltre che per l’audacia e l’estrema semplicità dell’argomento. Ciò nondimeno è una delle più criticate. Il fatto che dei giganti del pensiero come San Tommaso d'Aquino ed Immanuel Kant non la ritengano valida deve elevare al massimo grado la nostra attenzione, in quanto entrambi questi filosofi devono la loro fama proprio alla quasi totale assenza di sbavature nelle rispettive argomentazioni.

Sia Tommaso che Kant articolano le loro critiche ad Anselmo su un punto che a prima vista può sembrare decisivo: non si può passare arbitrariamente dal piano della logica-metafisica a quello della realtà. Ciò che esiste nel pensiero non esiste necessariamente anche sul piano fisico. [Tra parentesi, prima di entrare nel merito, chiedo al Lettore di tener presente il punto n. 4 che abbiamo appena ricordato poco sopra: la realtà della dimensione metafisica o spirituale è certa ed è (basti Platone o Cartesio per tutti: cogito ergo sum) pienamente incontrovertibile (mentre al contrario, come si è visto, l'esistenza di un mondo materiale è una mera supposizione)].

Immanuel Kant cerca di chiarire la questione nella Critica della Ragion Pura con quella che è da molti considerata una buona confutazione della prova ontologica, fondata sulla tesi secondo cui "l'esistenza non è un predicato reale". Cerchiamo di capire cosa significa con un esempio. Criticando Anselmo, Kant porta come contro esempio il concetto di una moneta da cento talleri (in uso all’epoca). Io posso avere il concetto di una banconota da cento talleri, ma da questo nulla si aggiunge alla sua esistenza o meno: le banconote concepite possono esistere nella mia tasca oppure no, il concetto è identico in entrambi i casi. Questo esempio per Kant vuole spiegare come il fatto che talvolta l’esistenza sia usata grammaticalmente come predicato (come nel caso di Dio esiste, dove “esiste” è usato grammaticalmente come predicato) non comporta che lo si possa combinare come altri predicati per costruire un concetto, in quanto l’esistenza può essere applicata solo "dall’esterno", ovvero con l'esperienza empirica. La copula nel giudizio analitico non può valere essa stessa come predicato: dicendo che "Dio è onnipotente" noi non possiamo dedurre che "Esiste un Dio che è onnipotente". Non possiamo dire che Dio sia esistente, in quanto l’esistenza non è una sua predicabile qualità. L’esistenza è qualcosa che solo in una fase successiva, "sintetica", per restare al lessico kantiano, possiamo aggiungere a questo soggetto. Lo si vede bene nel giudizio analitico a priori: il triangolo ha tre lati (per esempio). Si tratta di un’affermazione nella quale il fatto di avere tre lati non fa che esplicitare analiticamente ciò che è contenuto nel soggetto. Ma conciò non avremo affermato l’esistenza del tale triangolo che dobbiamo descrivere. Lo stesso ragionamento vale per Dio: se noi diciamo che "Dio è onnipotente" , non ne affermiamo l’esistenza reale. A tal proposito, come si è visto visto, Kant riporta l’esempio della moneta da cento talleri, che certamente nella sua identità è qualcosa di chiaramente pensabile,numericamente ineccepibile, ma nella sua effettiva realtà sarà esperibile solo attraverso la posizione stessa della cosa, la sintesi con l’esperienza e con l’intuizione sensibile. I cento talleri pensati dalla mia mente o i cento talleri che effettivamente posso possedere, da un punto di vista di definizione della cosa, sono esattamente identici, eppure l’esistenza è qualcosa di diverso. Lo stesso vale per Dio: Dio non fa eccezione rispetto a qualsiasi altro ente relativamente all’esistenza. Anche la sua esistenza non è un predicato, ma un’esistenza che può essere colta attraverso un intuizione sensibile. Ma Dio è per Kant un’idea della ragione, che sfugge a qualsiasi sensibilità, dunque la sua esistenza non è sintetizzabile. Dio non è quindi conoscibile.

Occorrerebbe già da ora chiedersi se "conoscere" sia logicamente equivalente a "dimostrare l'esistenza", ma per ora andiamo avanti. In sostanza - per Kant - la prova di Sant'Anselmo non avrebbe validità per via del fatto che i concetti di cui si serve sono, quanto alla loro materia, "vuoti", non come direbbe Kant: ad essi non corrisponde alcun contenuto esperienziale. Al concetto di questo “Essere Assoluto” proposto da Anselmo non corrisponde infatti alcuna esperienza sensibile possibile (E ci mancherebbe, direi come inciso fin d'ora). Senza dimenticare che essa si serve di procedimenti puramente logici e per Kant la logica non può essere utilizzata come organo per produrre conoscenza positiva.
E questo a sua volta deriva dalla definizione che Kant vuole dare della logica, ovvero come dottrina che si propone esclusivamente lo studio delle leggi formali del pensiero, ma non ci si può servire di queste leggi per affermare qualcosa di concreto se prima non ci si accerta , attraverso fonti extralogiche (l'esperienza sensibile, in questo caso), del contenuto di questa conoscenza.
In altre parole la prova ontologica presume, secondo Kant,di poter pervenire dalla semplice idea di qualcosa alla sua esistenza reale,prescindendo dal dato di esperienza.

Concludendo, la dimostrazione di Anselmo non sarebbe valida.



Ora, prima di proseguire vorrei ricordare al Lettore che la dimostrazione è una serie di ragionamenti logici che, partendo da una ipotesi,porta necessariamente a una tesi valida. Una dimostrazione consiste nel verificare, nel senso di mostrarne la ragionevole verità, un predicato, una frase. In logica matematica si dice "dimostrazione" una successione finita di asserzioni che o sono assiomi o sono ottenute da asserzioni precedenti nella successione mediante l'applicazione del "modus ponens". Per dimostrazione di una asserzione si intende una successione finita costruita in modo tale che l'ultima affermazione della sequenza sia proprio quella che si vuole affermare. Detto in altri termini, la dimostrazione consiste in «una catena di deduzioni attraverso le quali la verità della proposizione che deve essere dimostrata viene derivata dagli assiomi e da proposizioni precedentemente dimostrate».

Torniamo alla dimostrazione di Anselmo. Abbiamo visto come in sostanza la critica di Kant si basi sulla negazione che sia possibile passare da “un piano logico” a “un piano sensibile” in mancanza di una corrispondente esperienza sensibile. Eppure entrambi i piani sono reali, in quanto esistenti (anche se in modi diversi).

Abbiamo già visto che tale distinzione dà per scontata l'esistenza di un mondo materiale-sensibile separato da quello metafisico-spirituale, inoltre tiene ferma l'idea che l'ambito materiale è certamente conoscibile, mentre quello metafisico - spirituale non lo è. Lo slittamento dal termine logico al termine spirituale non può costituire un problema, una volta ammesso che gli enti logici, matematici, etc. debbano pur avere una qualche forma di esistenza. Posto che tale forma di esistenza non sia - come è evidente - quella fisica, non resta che indicare appunto l'altro piano, quello metafisico. Si ritorna ai punti precedentemente discussi: non esiste solo il piano fenomenico-sensibile, ci sono necessariamente altri piani dell’essere (quello degli enti matematici e così via), etc. etc.
Da questo punto di vista appare inoltre piuttosto curioso pretendere che l'esistenza di Dio si collochi sul piano delle esperienze fisiche, come sembrerebbe indicare Kant. Posto che Dio sia l’Assoluto, come può essere immediatamente oggetto dell’esperienza umana? Questa sì che sarebbe una bella contraddizione. E – vorrei sottolinearlo - un conto è affermare che Dio non può essere conosciuto come oggetto chiaro e distinto del pensiero, oppure - com'è ancora più ovvio - che non possa essere colto sul piano delle esperienze sensibili, ben altro discorso è invece affermare che la sua esistenza non è dimostrabile (in quanto non è un ente di cui è possibile fare esperienza nel mondo naturale). Io non vedo la relazione o l’interdipendenza tra i due aspetti.
I cento talleri pensati dalla mia mente o i cento talleri che effettivamente posso possedere, da un punto di vista di definizione della cosa, sono esattamente identici, eppure l’esistenza è “qualcosa di diverso”,dice Kant. “Qualcosa in più”, diremmo noi. (ID QUO MAIUS COGITARI NON POTEST, diceva Anselmo, riferendosi non ad una moneta in tasca o ad un'isola perfettissima, come aveva già fatto notare al monaco Gaunilone, ma all'Assoluto, che in quanto tale sarebbe contraddittorio pensare come non-esistente)
L’essere di Kant (ma su questa scia si era già posto almeno in parte anche Tommaso) assume un valore ridotto, snaturato, ristretto all'ambito dei fenomeni sensibili. Peccato che ogni giorno noi facciamo esperienza di altri livelli di essere, direttamente o indirettamente. Lo stesso Kant, d’altra parte, ha fatto ampio riferimento a concetti che appartengono ad un livello non certo sensibile (si pensi, per esempio all’unità sintetica originaria della percezione) o addirittura a postulati (Critica della Ragion Pratica).

La critica di Kant, in sintesi, non mi pare per nulla convincente.

È precisamente a questo punto che possiamo ricollegarci alle“prove a posteriori” ed in particolare a quelle “cinque vie” che suggeriva SanTommaso D'Aquino. Posto che il mondo sensibile non sia né garantito, né dimostrato, né l’unico modo in cui l’Essere si manifesta, credo che il passaggio dal mondo della nostra esperienza sensibile ad un livello ontologico superiore,che possiamo definire "metafisico" appaia ora un po’ più coerente e difficile da scalfire nel dibattito con l’ateo di turno.